24 gennaio 2023 QUEL GIORNO TU SARAI - METTI UNA SERA AL CINEMA - CGS DON BOSCO APS VERBANIA

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24 gennaio 2023 QUEL GIORNO TU SARAI

METTI UNA SERA AL CINEMA 33
QUEL GIORNO TU SARAI
5 ottobre 2021
Per la Giornata della Memoria
 
QUEL GIORNO TU SARAI – regia di Kornél Mundruczò
Genere DRAMMATICO - durata 97  minuti

Piombati nell'inferno concentrazionario tre soldati polacchi provano a lavare l'impossibile. A turno gettano secchi d'acqua sul pavimento, insieme spazzano con vigore le pareti fino a rimuovere dall'intonaco ciocche di capelli intrecciati come un enigma. Poi un grido sorge da quel luogo sotterraneo dove la morte inghiottiva in massa. È il pianto vivo di Eva. Anni dopo, il trauma di quella bambina, sopravvissuta alla Shoah, passa come una maledizione a sua figlia, Lena, che ha un figlio adolescente e una vita senza pace, e poi al nipote, Jonas, che vive con la madre a Berlino e si innamora per scongiurare le aggressioni razziste di un nuovo secolo. Tre esistenze, la stessa famiglia marcata dalla Storia.

I tempi della memoria in un grande film d'autore. È un film sulla Shoah, ma tutt’altro che un tributo rituale a una memoria necessaria, (titolo originale “Evolution”). Prima di “Pieces of a Woman”, supportato da Martin Scorsese in veste di produttore esecutivo, l’autore ungherese era soltanto un beniamino dei Festival e dei cinefili. Il suo primo film in inglese, che ha ottenuto a Venezia la Coppa Volpi per Vanessa Kirby, gli ha conquistato l’attenzione del grande pubblico.   A fianco del regista, ancora una volta, la sceneggiatrice Kata Weber, sua compagna di vita e di lavoro, e lo stesso Scorsese, per il quale questo film riesce “a drammatizzare il movimento stesso del tempo, il modo in cui ricordiamo e il modo in cui dimentichiamo”. Non è statica, la memoria, è in evoluzione costante. Ed è la diversa percezione dell’Olocausto, attraverso le generazioni, a porre le domande più inquietanti. Mundruczò affida ai suoi esasperati, virtuosistici piani sequenza il compito di comunicare l’esperienza di un trauma che dai campi di sterminio proietta tentacoli cupi sulla Germania di oggi. E un film articolato in tre episodi e tre epoche, legati dal filo rosso dei sopravvissuti. Tredici minuti di piano sequenza, nel primo episodio, sono un percorso surreale dalle tenebre opprimenti di un bunker senza nome fino alla luce di una scoperta toccante e miracolosa. Una bambina ebrea piccolissima, che si chiamerà Eva, è sopravvissuta al mattatoio di Auschwitz, è il gennaio del 1945. Tra il buio e la luce però si è materializzato l’orrore: le crepe dei muri celano grumi di capelli, come un intonaco cementato dal dolore umano.  Eva ha 80 anni, nel secondo episodio, è affetta da demenza senile, e racconta alla figlia, in un lancinante frammento di dialogo, i dettagli di come fu partorita, in piedi, a gambe larghe, mentre le donne facevano muro intorno a sua madre. Non può ricordare, ma sa. Come sa di essere ancora vittima, nella sua povera casa di Budapest, di discriminazioni che si perpetuano: lo stato ungherese si appiglia a un cavillo per negare quei pochi soldi di sovvenzione ai sopravvissuti dei lager. È un unico piano sequenza di 36 minuti, magnifico, girato da un direttore della fotografia superstar come Yorick Le Saux. Uno tsunami metaforico di acqua, dagli armadietti, dai muri, chiude l’episodio nell’unica scena aggiunta, collegandosi all’acqua dell’episodio iniziale. Sono fluide memoria e identità, e il modo in cui ci rapportiamo ad esse può sopraffarci o tenerci a galla. Ma formidabile, soprattutto, è Lili Monori, icona del teatro e del cinema ungherese, col volto devastato e illuminato da mille cicatrici di vita. La sua demenza (resa con la smarrita intensità dell’Anthony Hopkins di “The Father”), è uno scrigno della memoria remota, solido e inespugnabile.  La ricerca stilistica e la scrittura di “Quel giorno tu sarai” segnano un capitolo a parte nella filmografia sull’Olocausto. Meno folgorante purtroppo è il terzo episodio, protagonista la terza generazione. Lo spettro dell’antisemitismo risorge intorno al nipote di Eva, Jonas, mascherato da banale bullismo nella Berlino di oggi. Ma c’è una sorta di volontarismo politically correct nella solidarietà che lega il ragazzino ebreo alla compagna di scuola musulmana, come lui isolata ed esclusa. È il mondo come lo vorremmo, ma la simbologia è troppo facile, anche se affrontata con uno spessore lontano dai teen movies su tematiche simili. È speranza, comunque. E la speranza fa sempre bene.

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